… two, three ‘n four

Tratto da “Come un treno nella notte” – Luca D. Lindemann

… two, three, ‘n four…
Sussurra sbattendo le bacchette tra loro; il *Fender Rhodes di Gianluca mormora un tappeto vellutato di note e a turno tutti si lasciano coinvolgere dal ritmo armonico fino a disegnare il groove  di quello che chiamano, in gergo, “lo scaldino”.

Di solito in Re, maggiore o minore poco importa. Nella funk-fusion che suonano, le scale, i tempi, le armonie sono liquide. Si intrecciano, si mischiano, si confondono.

Si devono solo ascoltare tra loro. Ascoltare cosa fa ognuno e seguire il flusso. È la cosa che gli viene meglio. Gli viene talmente bene che spesso portano lo “scaldino” anche live. Ogni volta diverso, ogni volta più interessante. Lo “scaldino” non delude quasi mai: improvvisazione pura.

Luca suona insieme a Gianluca da quasi vent’anni ormai. Marco, il più maturo del gruppo è arrivato per ultimo, una decina di anni dopo, ma ha saputo fondersi con il resto della band in poche sessioni di prova. Ha gusto e tecnica da vendere; soprattutto è un chitarrista atipico, esattamente quello di cui questo gruppo, gli ElettraFunk, aveva bisogno.

E poi c’è Samuele, ormai per tutti Sam, il batterista, che insieme a Luca “chesuonaquasicomePastorius”, riesce a costruire una macchina ritmica da guerra. Con una tecnica da autodidatta ma un bagaglio musicale infinito, Sam interpreta il ritmo a modo suo, a tratti distaccato e tecnico, a tratti fisico e animalesco. Sam sul suo piccolo sgabello si trasforma, abbandona l’abito composto del professionista per ritrovare se stesso nel ritmo. E gli riesce molto bene.

A settembre di ogni anno ricominciano, raccogliendo le sempre più esigue energie creative per trasformarle in musica. Una musica che ormai pochi ascoltano. Un genere  che da portare live nei locali è diventato un’impresa disperata, a meno di non riuscire a riempire gli stessi di amici e parenti. Sam questo lo sa, ma quelle due ore settimanali nella sala prova di Settimo Milanese diventano l’unico modo per sfuggire al ritmo banale delle proprie giornate in ufficio: il Malvo Studio di Fabio è un rifugio dove dimenticare tutto e provare a sognare ancora un’occasione di riscatto.

           – Ma quindi quanti pezzi pronti abbiamo, alla fine? – Irruppe Marco alla conclusione dell’improvvisazione.

            – Bella domanda, se ripeschiamo anche la solita fuffa, forse tra un paio di mesi riusciamo ad uscire. Rispose Gianluca, guardando Sam.

            – Direi che siamo ad otto pezzi, un po’ pochi ancora, ma se ci buttiamo dentro “lo scaldino” e tiriamo un po’ in lungo tutti i brani, forse un paio d’ore le facciamo. – Rispose Sam, per primo, guardando gli altri con uno sguardo per nulla convincente.

            – Troppo pochi ragazzi! – Intervenne Luca – Dai, “lo scaldino” ha rotto i coglioni, e poi se lo facciamo, dobbiamo dargli un minimo di struttura. Non siamo i Weather Report, alla gente non frega un cazzo di otto minuti di soli nei brani!

           Luca aveva sempre questo modo molto diretto di esprimere le proprie opinioni: i bassisti non fanno molti giri di parole, perché sono l’anello mancante tra l’armonia ed il ritmo e devono farsi capire da chi solitamente non mastica quell’armonia, i batteristi, e da chi invece ne fa una regola matematica da applicare a qualunque situazione nella vita, i tastieristi appunto e, i chitarristi, in misura più contenuta. Ecco i bassisti stanno lì in mezzo e devono sintetizzare i due concetti. Hanno quella “lingua di mezzo” fatta di poche e semplici parole che spesso non sono di oxfordiana natura.

            – Alla gente non frega nulla di questa musica a prescindere – ribattè Ginaluca, con il suo tipico ghigno provocatorio – quindi noi, per un panino ed una birra, suoniamo quello che ci pare!

            Come dargli torto, pensò Sam. Alla fine forse quel panino e quella birra, insieme alla passione che li spinge sempre ad insistere, sono le cose che li avvicinano di più ai professionisti veri della musica jazz, della fusion. Roba di nicchia. Risuona spesso nell’ombra, lontano dalle orecchie distratte della massa. E Sam aveva un atteggiamento totalmente disincantato di quel mondo. Mondo che aveva sfiorato da molto giovane bruciandosi un’occasione per seguire ciò che ai suoi occhi e per educazione famigliare, in quel momento, sembrava una strada più solida: l’architettura. Ma certi treni passano una volta sola nella vita e ti ritrovi a scegliere la banchina del binario sbagliato senza saperlo. Senza rendertene conto subito.

            Due ore volano, pensò, e la luce rossa intermittente sopra la porta della saletta ricordò a tutti che le due ore d’aria erano finite.

– Son già le 10? – Chiese Marco lanciando un’occhiata sopra la porta.

– Ragazzi per la prossima volta riusciamo a portare qualcosa di nuovo? – chiese Luca – no perché mi sta montando la depressione a suonare sempre i soliti brani! Ci manca solo che riarrangiamo “The Chicken” in stile death-metal e poi l’abbiamo fatta in tutti modi!

Mentre ognuno velocemente cercava di rimettere i propri strumenti nelle custodie prima che Fabio spalancasse la porta per il cambio turno a modi “un, due, tre, stella!” e tuonando “Dai che gli altri aspettano!”,  Sam lanciò sul piatto due o tre proposte pescate dal proprio infinito archivio musicale mentale. Sempre materiale americano o anglosassone. D’altronde il jazz-rock, il funk e la fusion è roba loro.

           Tutti patteggiarono per una rivisitazione di “Do It Again” degli Steely Dan in stile ElettraFunk. Lo spirito della band era sostanzialmente quello di riarrangiare brani che non appartenevano al loro genere e trasformarli senza stravolgerli. Probabilmente era l’unico modo per creare un link tra l’ignoranza musicale nazional-popolare e la musica di un certo livello. Una sorta di funzione pedagogica, come aveva sempre sostenuto Marco.

            Tolta la modalità “aereo”, il cellulare tornò a far parte del mondo connesso e dal sedile del passeggero iniziò a snocciolare suonerie varie come un rosario digitale: messaggi, notifiche, mail… Sembrava che il mondo virtuale non potesse stare per due ore senza Sam Durante, architetto e batterista di Milano, con un debole per la fotografia, il buon vino e la montagna.

           Accese l’auto, lesse distrattamente la lista di notifiche e rigettando il telefono sul sedile puntò verso casa.

            Poco dopo le 22 di un inizio settembre, i colori della notte erano ancora stemperati dall’estate che stava cedendo il passo. All’orizzonte, l’ultimo tenue bagliore della giornata disegnava profili di case, cose e vite lontane. Sam indugiò ad un incrocio. Guardò quel profilo lontano e fissando quell’ultima luce resistere all’incedere del buio pensò a suo padre. Pensò a dov’era. Fermo ad un incrocio, in equilibrio nella penombra di un giorno che stava finendo. Pensò alla sua vita. Sto perdendo l’equilibrio, o sto solo cercando un modo di trovarne uno nuovo, pensò.

[*] Piano elettrico prodotto dalla Fender dal tipico suono, molto usato nel funk, jazz e nella musica pop anni ‘70

24 Febbraio 2019

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